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Sarà per Nino Chiovini il primo parco letterario del Piemonte

Paolo Crosa Lenz

Nascerà sui monti della Val Grande il primo parco letterario del Piemonte. Qualcuno dirà: ci mancava anche questa!. Invece è una buona e bella notizia. Cos’è un parco letterario? È un territorio raccontato dalla letteratura e per questo rimane nel sentire collettivo, pensiamo ad un luogo e lo ricordiamo perché qualcuno ci ha scritto (pensate a “quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno”).

L’iniziativa è del Parco Nazionale Val Grande, della Casa della Resistenza e della “Dante Alighieri” di Verbania. Meglio di così!
Il parco letterario (in fondo una scusa per leggere e andare in montagna) sarà intitolato a Nino Chiovini (1923 – 1991). Perché a lui? Verbanese, partigiano, uomo di alti e fermi ideali, svolse un ruolo fondamentale nella cultura del Verbano nella seconda metà del Novecento. I motivi di questa intitolazione sono due.
Primo. Nino Chiovini contribuì da pioniere a documentare la storia della Resistenza nel Verbano. Il suo libro I giorni della semina 1966 ricostruì il Rastrellamento del giugno 1944. C’è scritto. “Quando venni al mondo, il fascismo aveva da poco preso il po¬tere in Italia. All'età giusta fui mandato a scuola e come tutti gli altri scolari feci parte ai diversi livelli delle organizzazioni giova-nili fasciste: figlio della lupa, balilla, avanguardista.
Per parecchi anni non ebbi problemi, nessuno mi disse niente che potesse dispiacere al regime dell'epoca, io non sapevo pen¬sare al di là del fascismo. Poi, avevo 18 anni e c'era la guerra, sorsero i primi interrogativi, i primi dubbi, a scuola udii da uno stimato insegnante le prime parole ragionate contro il fascismo. Più tardi, nella prima fabbrica in cui lavorai ne udii altre più chiare, più vicine; poi i discorsi rabbiosi dei soldati di ritorno dai fronti. Infine mi riconobbi antifascista. Il terreno era pronto per la semina, cosicché dopo l'8 settembre 1943 fu naturale per me prendere con le armi la via della monta¬gna dove mi trovai con altri giovani che avevano alle spalle esperienze analoghe o più traumatiche; e alcuni meno giovani che da anni lavoravano di aratro. Vent'anni dopo, e mi andavo chiedendo con ostinazione e senza amarezza perché fosse tutto qui il raccolto, avevo ancora nella mente il ricordo del più sconvolgente avvenimento che il Verbano abbia conosciuto da chissà quanto tempo, certo da secoli: il rastrellamento del giugno 1944.
Secondo. Concluso il ciclo degli studi resistenziali, si dedicò alla narrazione della “civiltà rurale montana” (la definizione è sua) della Val Grande, quella “terra di mezzo” tra il Lago Maggiore e le Grandi Alpi. Scrisse una trilogia che rimane un riferimento saldo per gli studi: Cronache di terra lepontina 1987 (la ricostruzione delle “guerre d’alpe” tra Cossogno e Malesco), A piedi nudi 1988 (la storia della pastora Sofia Benzi, è il suo capolavoro!), Le ceneri della fatica 1992 postumo (i contadini di montagna che diventano operai in fabbrica).
Conobbi Nino Chiovini tardi, parlammo tanto di monti e di alpeggi, pensammo ad un documentario da mandare al festival di Trento. La malattia lo impedì. Andai a trovarlo in ospedale per portargli un mio libro appena uscito. Non mi riconobbe. Lo accarezzai come un padre.

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