La transumanza, ma “moscerina” non c’era
Ottobre, andiamo. È tempo di migrare. La stagione delle transumanze, celebrate nella poesia di D’Annunzio è arrivata un mattino con il soffio di tramontana che ha portato con sé l’autunno. In questo periodo le mandrie scendono dagli alpeggi più alti lasciando spazio ai cervi che bramiscono nelle arene d’amore.
Tornano gli animali, ciondolando i tozzi corpi con lentezza, sazi dell’estate trascorsa all’alpe. A casa brucheranno prati di terzuolo. È un rituale che si ripete da millenni “su le vestigia degli antichi padri” direbbe il vate. Conserva in sé, perpetuandolo, il fascino delle cose semplici, immutabili e necessarie. Il rito pastorale del viaggio, il ritorno a casa, il calore e la sicurezza della stalla sono gli aspetti poetici della transumanza. Ma, a volte, qualcosa si rompe, spezza questo equilibrio lirico e, nella scena, irrompe la realtà.
La stalla della mia vicina ha tre posti per tre pecore. Tre femmine che a fine estate tornavano gravide da Lavazzero l’alpeggio alto della val Bianca. Quest’anno è tornata, spaventata, solo la più giovane. Le sue compagne (Moscerina, aveva più di quindici anni) sono state sbranate. L’ho intuito guardando Romilda accarezzarle la testa con un velo di lacrime agli occhi. Quel giorno il predatore ha cessato di essere un’entità astratta, si è smascherato, ci ha tirati in ballo.
La pecora, legata con una corda, pascola vicino alla sua pastora. Si spaventa facilmente, percuote con le zampe il terreno, annusa l’aria. È un animale che ha visto il suo cacciatore, l’ha annusato, ha sentito l’odore del sangue. È una pecora che in inverno partorirà un agnello. È un segnale della vita che continua per la pecora e per la belva e, in fondo, per noi stessi.